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D.N.A 

Dovrei Nascere Ancora

( libro in scrittura 2010-11 )

 

              

 

Gianguido Palumbo

PAGI

 

DNA

Dovrei Nascere Ancora

 

Romanzo

 

EDIZIONIELETTRONICHE

ADHOC

ROMA 2011

 

 

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Sintesi sul protagonista e la storia

 

Andrea Daltri, 50 anni appena compiuti, Fotoreporter free lance affermato, è nato a roma, dove vive, da un padre palermitano e una madre veneziana ( morti entrambi ). Ha tre fratelli più grandi di cui uno il più grande di 60 anni sta anche lui a roma. Andrea è cresciuto a roma per i primi 10 anni, poi ha vissuto con i genitori a palermo dai 10 ai 18  sempre con la famiglia a Venezia e dai 18 ai 28 ed è tornato da solo a roma dai 28 in poi. Laureato in Lettere a venezia, incontra la moglie Laura a Roma, lei insegna alla scuola superiore. Hanno due figli, un maschio e una femmina  di 20 e di 15 anni. Vivono da benestanti vicino a Villa Torlonia.

Andrea arriva ai suoi 50 anni in crisi di identità totale : di genere, di età, di appartenenza etnica e geografica, di paternità, d’amore, di professione, di politica. Non capisce più chi è e chi vuole essere. La rilettura di Pirandello Uno Nessuno Centomila lo turba profondamente e decide di provare a capirsi attraverso diversi metodi.

Va da uno psicologo, parla con il fratello ed alcuni amici, interroga a suo modo la moglie e i figli, come degli specchi, alcuni colleghi, scrive ad amici di vecchi data… addirittura va da tre maghi che leggono carte o sfere o fondi di caffè……legge libri….ma  sta sempre peggio.

Un giorno decide di provare a farsi fare l’analisi del DNA almeno per ricominciare dalle origini.

Quando riceve la risposta…rimane di nuovo molto turbato e….. consulta due amici, una biologa e un antropologo per interpretare meglio ciò che l’esame dichiara.

Sempre più in crisi decide di partire per un viaggio alla ricerca delle sue radici  e…………………

 

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Pirandello

 

Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?

Io non potevo vedermi vivere. Restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere ed io no . Ma conoscersi è morire.”

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri, del nome di oggi, domani.

Se il nome è la cosa, se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi….

Un nome non è altro che una epigrafe funeraria, conviene ai morti a chi ha concluso.

Io sono vivo e non concludo.

La vita non conclude.

E non sa di nomi la vita.

Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove.

Sono quest’albero.

Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo.

Tutto fuori vagabondo.

Io esco ogni mattina all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba,

con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte,

prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli.

Quelle nubi d’acqua là, perse, plumbee, ammassate sui monti lividi,

che fanno parere più larga e chiara, nella grana d’ombra ancora notturna,

quella verde plaga di cielo.

E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi freschezza viva delle prode.

E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli si allontani cominciando,

ma senza stupore, a schiarirglisi attorno,

con la luce che dialoga appena sulle campagne deserte e attonite.

E queste carraie qua, tra siepi nere e muriccie screpolate,

che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno.

E l’aria è nuova.

E tutto attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire.

Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire.

Così soltanto io posso vivere, oramai.

Rinascere attimo per attimo.

Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare

e dentro rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.

La città è lontana.

Me ne giunge, a volte, nelle calma del vespro, il suono delle campane.

Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare,

che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante,

in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei.

Pensare alla morte, pregare:

c’è pure chi ha ancora questo bisogno e se ne fanno voce le campane.

Io non l’ho più questo bisogno,

perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:

vivo e intero, non più in me,

ma in ogni cosa fuori. “

 

 io

Ho visto il letto in cui è morto, il suo armadio con alcuni vestiti, il piccolo tavolo da studio, e una sedia, nella sua camera al primo piano di una bella Villa, oggi malridotta, a Roma. Ho visto anche l’ingresso, il salotto e uno studio con i suoi libri: ho visto dove ha vissuto i suoi ultimi anni, proprio qui a Roma, da solo ormai. Mi sono emozionato. La Casa Museo è qui a pochi passi da casa mia, aperta ogni mattina dalle 11 alle 13, per visite e consultazioni della biblioteca annessa.

Quando Luigi Pirandello scrisse Uno Nessuno Centomila nel 1958, cinquanta anni fa, le mie crisi di identità erano in nuce, nei miei otto anni di vita vissuta in un’altra città siciliana, a Palermo, non distante dalla sua Agrigento.

Quando lessi per la prima volta questo libro nel 1968 in un’estate calda e deludente, mi aveva turbato ma ancora non capivo bene, non riuscivo a riconoscermi, non potevo riconoscermi: stavo vivendo il terremoto storico di quegli anni ed ero pieno di energie e speranze.

Oggi, quest’anno, 2008, a 35 anni dalla mia prima lettura, il romanzo mi lascia attonito, denudato. Oggi le ultime tre pagine mi sembrano come una improvvisa poesia testamento dopo le centinaia e più pagine del romanzo che sconvolge perché racconta di ognuno di noi. Alla fine del libro l’autore svela e propone una chiusa orientale, quasi Zen, basata su una specie di reincarnazione : “vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori” !

Ma io non credo neanche nella reincarnazione o in una mistica delle multivite animali e vegetali: una magra consolazione.

Eppure vorrei capire meglio, da tempo, chi sono e perché.

A cinquant’anni ne avrò il diritto e forse anche il dovere ! Il Mondo mi sta travolgendo con il suo turbinio di coesistenze intrecciate, di concause terribili e straordinarie, di responsabilità individuali e collettive, di connessioni, comunicazioni, mutazioni, di catastrofi e scoperte, guerre parziali e paci, tregue infinite, gioie, lutti, sfide, delusioni, di progetti e bilanci e soprattutto paure.

Ma io, non tu altri o altre, io chi sono oggi, a questo punto, adesso non ieri o dieci o venti o chissà anni fa, io chi sono ?

Un uomo o una donna mancata o qualcos’altro in movimento ?

Un semivecchio, un adulto, un ragazzo bloccato, un bambino ?

Un bianco, europeo, italiano veneto-siciliano, un romano acquisito e basta, un bastardo ?

Un essere umano senza dio, senza fede o un credente in potenza ma molto presuntuoso ?

Un borghese semiricco, un benestante, o un potenziale povero improvviso ?

Un intellettuale, un professionista, un creativo, o un dilettante indeciso, un macchinista dell’immagine ?

Un progressista di sinistra, un democratico, un ex comunista, un liberale radicale, un indeciso ?

Un nonno, un padre, o ancora un figlio ?

Un ottimista, un pessimista o un equilibrista ?

Un egoista camuffato da altruista o un altruista che sembra un egocentrico ?

Un pazzo, un normale o un animale a corrente alternata ?

Chi mi può aiutare a capire ?

Pirandello cinquant’anni fa mi preparava il terreno ma adesso non mi basta, mi spinge piuttosto ad insistere a provare, a cercare di non impazzire. Perché il rischio c’è e molti lo stanno correndo o lo hanno già fatto in vari modi e intensità. Adesso la sfida della scienza mi provoca e posso provare a conoscere un po’ di più me stesso, analizzarmi, scoprire in parte almeno le mie origini.

Non è così scontato, il risultato.

Quando avevo deciso di farlo altre volte, mesi fa, c’era un misto di curiosità, narcisismo, voglia di capire, di scoprire, di interpretare fatti, comportamenti, miei e di gran parte della mia famiglia. Pensavo che attraverso l’indagine avrei anche potuto prendere delle decisioni sul futuro vicino che avrebbero influito sul futuro più lontano, sulla mia vita ma anche su quella delle persone a me vicine. E così la decisione l’avevo rimandata più volte in avanti forse per un po’ di paura, di timore di una verità imprevedibile.

Adesso devo aspettare almeno un mese per la risposta delle analisi.

 

 In Africa

 

Africa, una periferia urbana subsahariana, una sera.

Sono in auto, in mezzo al traffico, quasi due ore di tragitto per pochi chilometri, quasi sempre a passo d’uomo.

Il caldo umido pesa sulla città.

Palazzi moderni in costruzione, autostrade appena tracciate da cumuli di terra scura, sequenze di case basse di mattoni poveri, baracche di legno e lamiere, grattacieli improvvisi ma spenti, pompe di benzina illuminate, centinaia di vecchi ombrelloni e ripiani di legno invecchiato pieni di merci e di cibi su marciapiedi inesistenti, strade disasfaltate, bucate, fangose per la pioggia quotidiana.

E’ semibuio con le luci dei fari dei mezzi.

Sono circondato da centinaia di macchine usate, riparate, scrostate, guercie, semiaperte, vetri rotti, qualche suv lucido e aggressivo con vetri chiusi  fumè, aria condizionata e viaggiatori invisibili, taxi gialli e neri malmessi o ben messi, pulmini car-rapide coloratissimi, scassatissimi, pienissimi, bus, camion e tir giganteschi, motorini sgangherati, qualche bicicletta e decine di carretti con cavallo, vanno e vengono da ogni e in ogni direzione.

I gas di scarico riempono l’aria ed entrano nei polmoni di chiunque.

I rombi di motori riparati invadono lo spazio come belve aggressive, i clacson insistono e cento voci urlano, imprecano avvertono, chiamano.

Capre e buoi, singoli, a coppie, a piccole mandrie impaurite, tornano ai recinti per la notte circondando gli automezzi, saltandosi addosso, muggendo e belando, sgranando i grandi occhi per la paura proprio in faccia a guidatori ancora più impauriti.

In qualche incrocio bloccato, la Polizia urbana e gli aiutanti con gilet fosforescenti si sforzano di domare il traffico-mostro di una giungla urbana.

Sparsi per strada e su marciapiedi residuali, rifiuti di ogni tipo accumulati da anni, da mesi, da giorni: carte, plastiche, scarti di cibo, scarti di lavorazioni artigianali, pacchettini di cellofan vuoti d’acqua colorata appena succhiati e gettati, lattine di bibite, frammenti d’ogni ché.

Migliaia di persone di tutte le età, di tutti i generi, camminano, aspettano, guardano, vendono, comprano, parlano, litigano, lavorano fuori e dentro piccoli negozi-laboratori, mangiano qualcosa, cucinano qualcosa, molte giovani donne eleganti e sinuose, non per forza benestanti, come estranee all’intorno, avanzano con i loro vestiti colorati, puliti, stirati, e gareggiano fra loro consapevoli, molti giovani uomini stracciati e sporchi si trascinano per forza d’inerzia, altri all’ultima moda americana con pantaloni scivolati e canottiere luccicanti, cappelli firmati, procedono in mostra, altri tunicati tradizionali con rosari alle mani incedono critici.

Dentro i car-rapide, illuminati a caso dalle poche lucine di servizio, alcuni visi appaiono seri, pensierosi, stanchi: donne, donne, centinaia, migliaia di visi di donne dignitose coi loro copricapo, sacchi, borse e bambini sulla schiena, sfruttano il meno caldo della sera per svolgere le loro attività spostandosi da una parte all’altra della città o del quartiere, sforzandosi di sopravvivere e permettere la vita degli altri, dei padri, dei mariti, dei figli, dei fratelli, dei cugini, degli zii, degli uomini di tutte le età.

Non è un incubo : è solo domenica sera nella periferia di Dakar.

 ***

Africa, savana subsahariana: il sole sta scendendo all’orizzonte.

Mi incammino da solo lentamente lungo una delle piccole strade di terra battuta che entrano ed escono dal piccolo villaggio di capanne, uguale da millenni. Il caldo del giorno diminuisce lentamente come i miei passi, mano a mano che il sole va giù. Guardo ritmicamente i miei piedi, la strada, a destra, verso il sole, verso ovest, a sinistra verso est. Le poche voci del villaggio si allontanano: bambini in gioco, donne che li chiamano, voci maschili basse che si alternano. Aumenta il volume dei richiami di uccelli diversi, isolati o in gruppi, articolati e intermittenti o semplici e continui. Due bambini pastori riconducono al villaggio un piccolo gregge di capre maculate, un carretto trainato da un asino porta acqua dal pozzo alle capanne, e poi più nessun essere umano a vista d’occhio, a sentir d’orecchio o di naso.

Completamente solo mi fermo rispettoso, curioso e ammirato a testa bassa davanti a una lunga striscia scura semovente che attraversa la strada da est a ovest, e come ad un incrocio di città aspetto che il flusso termini per andare oltre e continuare la mia passeggiata. Dopo pochi attimi di osservazione capisco che quel flusso è continuo, interminabile. Centinaia di formiche nere, grandi, camminano in entrambe le direzioni, per decine di metri oltre la strada alla mia destra ed alla mia sinistra, perdendosi alla vista in mezzo alle coltivazioni di miglio. Alcuni minuti di pausa e riflessione su quella forza silenziosa del mondo microanimale, e supero l’incrocio, e vado oltre, mentre il sole tocca la linea d’orizzonte.

La terra è gialla e in parte scura dove mossa, i campi di miglio con le canne tese pronte al prossimo taglio sono sparse qua e là senza un ordine geometrico visibile. Gli alberi di Kadd di diverse età, misure e altezze, si stagliano eleganti con le loro chiome a ombrello e pochi Baobab giganti dominano la prospettiva naturale in ogni direzione. Il cielo è azzurro intenso con nuvole vaganti rosate, arrossate, violettate, nel cambio progressivo del cromatismo naturale dei tramonti africani.

Mi fermo nel silenzio relativo della savana lenta e maestosa , guardando il sole scendere piano piano dietro alberi, arbusti e canne, mentre uccelli continuano a farsi sentire e volare improvvisamente dalla cima di un albero a un altro.

Anche qui la sabbia del Sahara arriva ogni anno sempre più abbondante, creando problemi alle coltivazioni, agli animali, agli esseri umani. Anche qui il piccolo villaggio di cinquecento abitanti non è immune da continui problemi, tra la speranza di risolverli e la paura di esserne travolti. Anche qui si vivono tutte le follie e le contraddizioni di un Paese africano che è fra i meno poveri e i più democratici. Anche qui si sente la crisi economica internazionale, i rischi dei fondamentalismi religiosi, le sirene della ricchezza bianca occidentale vuota di valori, mangiati dal commercio della vita. Anche qui avverto il senso della mia impotenza di fronte alla grandezza ed alla forza della Storia che travolge.

Eppure il mio corpo, la mia mente, la mia pelle, i miei piedi nudi, le mie mani asciutte, la mia faccia sporca, i miei capelli aridi e folti, i miei occhi fissi pericolosamente sulla luce del sole discendente, le mie orecchie tese a percepire ogni scarto di suono, tutti insieme mi trasmettono il senso di una sola origine primaria : un essere umano, un animale, maschio, di media età, parte integrante di questa Natura, di questo Mondo, di questo Pianeta, un essere umano nato, cresciuto, destinato a morire silenziosamente, parte integrante di una vita ciclica, soggetto a regole biologiche, senza alcun diritto di supremazie e violenze ma solamente carico di molti doveri di rispetto attivo per questa terra, per queste piante, per queste formiche, per questi uccelli, per questi asini e capre, per questa gente,  per quella palla gialla di luce che scende e l’altra bianca di riflessi notturni, che inizia a salire.

Proprio qui, a pochi passi dalla vita umana di un villaggio, mentre il sole scompare infuocando il cielo, di fronte a decine di sagome scure di alberi e arbusti, mi sento un semplicissimo essere vivente di cui non importa l’altezza, l’età, il colore della pelle, la forma del naso e il tipo di capelli, i pensieri del cervello: qui, in quest'istante, sono solo un uomo. DNA n. 6.375.970.315-07.07.1957

Mi rassereno, ma per poco: devo tornare al villaggio e riprendere a vivere.

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AMLETO 2010 ?

(Una nuova Traduzione di Andrea  2010)

 

Essere o non essere,

questo è il problema:

è più onorevole sopportare le batoste della sorte

o attrezzarsi e reagire ai mali

per contrastarli fino allo sfinimento ?

 

Morire e così addormentarsi nel nulla

e con questo accettare di risolvere tutte le sofferenze ereditate ?

E’ questa la conclusione che dovremmo augurarci avendola pregata ?

 

Morire, dormire e forse anche sognare:

ma è qui il dubbio del pensiero.

Perché proprio nel sonno della morte,

illusi della liberazione di un corpo fastidioso e sofferente,

potremmo sognare invece incubi.

Ed ecco allora perché siamo costretti a fermarci,

ecco il dubbio che ci spinge a resistere ed a vivere nella sofferenza.

 

Se no, chi riuscirebbe a sopportare

quelle stesse batoste ed i malanni della vita,

le sofferenze per gli amori rifiutati,

le prepotenze dei potenti,

le espressioni insopportabili dei presuntuosi,

le resistenze alla legalità,

le arroganze del potere pubblico,

gli oltraggi al merito paziente

da chi non meriterebbe proprio nulla,

quando ognuno di sua mano d’un sol colpo

potrebbe uccidersi in qualsiasi modo ?

 

E chi vorrebbe trascinarsi quei problemi,

e sudare e lamentarsi sotto il peso di una brutta vita,

se la paura di qualcosa oltre la morte

-      lo spazio tempo ignoto, inesplorato da cui nessuno è mai tornato –

non influisse a tal punto sulla volontà

da farci sopportare quei mali che già abbiamo,

anziché rischiare un aldilà con altri mali ?

  

Ed è così che diventiamo vili

È così che al primo pensiero passeggero

Si sciupa il primitivo colore del coraggio,

ed a causa di questo

anche le grandi idee e le imprese originarie

decadono perdendo ogni energia.

 

 

 

Foto e testi di Gianguido PAGI Palumbo
last update: 23/05/2011 11.07.11